L’ANTI-STORYTELLING NELL’IMMAGINE IN MOVIMENTO

La videoarte nasce negli anni Sessanta dalla necessità di riflettere e sperimentare le possibilità che l’oggetto-televisore poteva offrire svincolandosi dalla realtà del palinsesto televisivo. Ha subìto vari cambiamenti nel corso delle decadi, affrontando di volta in volta problematiche diverse legate al supporto video in continuo cambiamento.

Inizialmente esisteva una netta divisione tra il cinema d’artista e la videoarte, in quanto generalmente il primo si realizzava con la pellicola e la seconda con il video (inteso come segnale elettronico): i “materiali” indagati erano quindi diversi e, di conseguenza, i risultati ottenuti. Il cinema sperimentale utilizzava una “tecnologia” analogica, la videoarte invece una tecnologia elettronica e digitale (ora invece questa distinzione è più difficile se non quasi impraticabile, a causa della completa digitalizzazione della nostra epoca).

Tuttavia la videoarte si sviluppa dal cinema sperimentale, il quale nasce nientepopodimeno che dal fermento artistico delle Avanguardie Storiche: nei ruggenti anni Venti molti artisti, soprattutto pittori, videro nella “settima arte” un nuovo mezzo con cui lavorare ed espandere i loro orizzonti artistici (gli esempi più famosi sono: Ballet Mécanique di Fernand Léger del 1924, Un chien andalou del 1927 e L’age d’or del 1930 di Salvador Dalì e Luis Buñuel).

 

Cinema sperimentale: Maya Deren e Jonas Mekas

Due capisaldi del cinema sperimentale sono Maya Deren, considerata la madre dell’avanguardia cinematografica americana, e Jonas Mekas, il fondatore del New American Cinema Group.
Maya Deren fu danzatrice, coreografa, fotografa e scrittrice. Tra gli anni Quaranta e Cinquanta inizia a produrre diversi cortometraggi in cui agisce in prima persona davanti la macchina da presa. Nelle sue opere enigmatiche e fantasmatiche figure femminili si muovono a passo di danza creando atmosfere in bilico tra Surrealismo, Simbolismo ed Esoterismo.

Jonas Mekas, invece, vede nella macchina da presa un prolungamento fisico del proprio corpo, un’estroflessione del proprio mondo interiore. Grazie ad essa riesce a registrare in immagini e, in maniera assolutamente spontanea, le sue emozioni e sensazioni.
Non è interessato alla pulizia estetica né ad un utilizzo corretto della grammatica cinematografica, bensì ad ogni possibile sporcatura derivante il mezzo utilizzato (flash bianchi della fine della bobina, sgranature e immagini fuori fuoco, movimenti della camera non perfettamente bilanciati…). Le sue opere sono dei ritratti intimi e quasi documentaristici del suo firmamento privato di conoscenze e affetti.

Le tematiche intime e personali tipiche del cinema sperimentale¹ riusciranno a ritagliarsi un filone anche all’interno della successiva videoarte, tuttavia molti artisti si concentreranno sulla sperimentazione legata al medium televisivo. 

 

Videoarte: un linguaggio in continuo cambiamento

La nascita della videoarte è fatta risalire al 1963. Anno in cui Wolf Vostell realizza 6 TV-Dé/Collage alla Smolin Gallery di New York e Nam June Paik realizza la mostra Exposition of Music-Electronic Television a Wuppertal.
Il televisore è il protagonista di queste prime opere. Questo nuovo oggetto di design è capace di illuminare lo spazio circostante, modificandolo, e può rimanere acceso per un tempo illimitato. Inoltre, per la prima volta nella storia, mostra immagini in diretta, caratteristica che sembra avvicinarlo incredibilmente alla realtà, portando su un ulteriore piano il dibattito filosofico sul concetto di reale aperto da fotografia e cinema.

La videoarte degli esordi, dunque, si focalizzava sulla manipolazione delle immagini televisive. Attraverso magneti e videosintetizzatori gli artisti stimolavano la capacità della macchina video di generare autonomamente immagini astratte, “originarie”, a loro modo primordiali e archetipiche del linguaggio elettronico: linee e punti, colori distorti, la neve, forme sinusoidali in costante movimento, tutti, di fatto, disturbi del segnale.
Alla base di questo tipo di operazioni vi era anche un discorso politico: si voleva portare in luce il dibattito sulla realtà, andare contro l’immaginario rassicurante e ammiccante dei palinsesti televisivi mostrando “il vero volto” della macchina, quasi fosse la faccia nascosta della luna

Le cose poi cambiano molto con l’avvento di supporti di registrazione amatoriali home video. La commercializzazione del Sony Portapack nel 1967, prima videocamera portatile amatoriale, apre finalmente alla possibilità di sganciarsi dalle sopracitate immagini casuali per creare un proprio alfabeto personale.
Le immagini, ora originali, diventano testimonianza, aprendo la strada ad un filone della videoarte legato alla performance. Ecco che il video ritrova quell’aspetto d’intimità che tanto aveva caratterizzato il cinema sperimentale.

Immagini nuove si sommano a nuovi metodi di manipolazione elettronica e la sperimentazione si sposta sugli effetti visivi permessi da software di matrice televisiva. Tra i primi esempi di questo filone di ricerca vi è Three Transitions di Peter Campus: un’opera del 1973 in cui l’autore crea tre transizioni utilizzando il chroma key.

Negli anni 80 un’ulteriore spinta al cambiamento è data dalla nascita di MTV nel 1981: la prima televisione monotematica dedicata ai video musicali. Con una programmazione attiva 24 ore su 24, era continuamente a caccia di contenuti arditi che si adattassero bene al genere breve del videoclip. La videoarte divenne dunque il principale riferimento visivo da copiare e omaggiare per i nuovi registi di video musicali.
Era la prima volta che tutta la sperimentazione audiovisiva (cinema sperimentale, cinema d’animazione, videoarte e computer art) si ritrovava ad avere un proprio personale palinsesto televisivo, che le permise di essere conosciuta da un ampio pubblico.
Questo determinò un primo passo verso un’osmosi tra sperimentazione audiovisiva e produzione commerciale.

Con gli anni Novanta in poi, attraverso l’avvento del digitale, le cose mutano nuovamente, ponendo altri quesiti: primo fra tutti la riproducibilità delle opere video monocanali.
Con l’avvento di internet il problema della presunta originalità dell’opera si fece sempre più insistente, anche a causa della perdita di valore nel mercato dell’arte del video monocanale, proprio a causa della sua duplicabilità. Molti artisti che adoperavano la tecnica del video “a schermo singolo” cominciarono a lavorare con le videoinstallazioni, riflettendo sulla performatività dello spazio e del pubblico.

 

Il bivio dell’estetica contemporanea

L’evoluzione appena descritta vede inoltre il crearsi una scissione estetica molto marcata: da un lato, si ha una tensione verso un’immagine ultra definita, pulita e precisa, dall’altro invece una volontà di ritorno al cinema delle origini, ad un’estetica vintage e più “artigianale” (si pensi ai film di animazione di William Kentridge, che nascono da disegni a carboncino). 

Questa tensione arriva fino ai giorni nostri. Oggi vediamo contrapporsi il continuo perfezionamento tecnico tendente alla massima definizione possibile, al recupero dell’estetica della pellicola e delle sue “sbavature” (strappi, bruciature, sottoesposizioni), insieme ad un utilizzo “sporco” della macchina da presa.
L’abbiamo visto bene lavorando con Emilio Isgrò, quando durante i primi colloqui precisò che la pulizia estetica non doveva necessariamente essere ricercata. L’errore e l’imperfezione erano, per l’artista, elementi da tenere in considerazione.

È chiaro che oggi la produzione di massa tende alla perfezione estetica e se in origine la videoarte era underground, ora si è talmente diffusa, espansa, sfibrata da diventare quasi mainstream e vedere sfumare i limiti della propria identità. Il livellamento a standard estetici molto alti è rilevabile anche in contesto video-artistico.
Tuttavia si rileva anche un moto sotterraneo, che ancora fatica ad emergere, e che tende verso il ritorno di quella sensazione di autenticità tipica della pellicola. Forse iniziamo ad essere stanchi della finzione della perfezione estetica e abbiamo bisogno di tornare all’errore, alla pasta grezza, al reale?

Irene Toniolo
Regista e Artista Visuale

Giulia Lazzaretto
Creative Designer at DrawLight_MeYoung

 


¹ Non tutto il cinema sperimentale si traduce in ricerca legata al corpo o all’esperienza privata. Vi sono filoni di ricerca che, similmente a quanto avverrà per il video, indagano il mezzo espressivo e le sue potenzialità ottiche. Un esempio è Anémic Cinéma di Marcel Duchamp, per non citare i numerosissimi esempi di ricerca nel campo del cinema d’animazione.

 

Bibliografia:

Alessandro Amaducci, Videoarte. Storia, autori, linguaggi, Kaplan, Londra 2014
Philippe Dubois, Video e scrittura elettronica. La questione Estetica, in Valentina Valentini, Il video a Venire, Rubbettino, Soveria Mannelli, 1999